
CAPITOLO 1: COME FINIRE NELLA GIUNGLA CON DEGLI SCONOSCIUTI
Io e Federico eravamo partiti per quel progetto in Cambogia senza neanche conoscerci, ma avevamo una passione in comune: il giornalismo. Lui faceva il fotografo, io avrei voluto scrivere reportage per vivere. E così avevamo iniziato quei due mesi all’avventura carichi di aspettative e a caccia di reportage. Intervistavamo improbabili expat e andavamo a casa di autisti di tuk. Avevo perfino trascinato una povera volontaria francese con me in un villaggio chiuso agli stranieri, aggirando le guardie all’ingresso. Poi un giorno decisi di scrivere una mail ad Ouch Leng.
Il nome Ouch Leng quasi sicuramente non dirà nulla agli italiani (e forse nemmeno a molti cambogiani). Io stessa lo avevo scoperto chi fosse quasi per caso. Nel 2016 questo tranquillo signore sorridente aveva appena vinto il Goldman Envirnmental Prize, uno dei più importanti premi internazionali per l’ambientalismo. Da più di un decennio si occupava di preservazione della foresta in Cambogia, investigando e testimoniando il disboscamento illegale.
Se state pensando che è vero che ogni area verde è importante, ma che la Cambogia non è mica l’Amazzonia, dovreste ricredervi. Questo piccolo paese asiatico nel 2014 era il 5° paese col tasso di deforestazione più alto al mondo secondo Forest Trend. Una storia già scritta, dato che gli altri stati della regione avevano già raso al suolo molto di ciò che potevano, ma la Cambogia era rimasta a lungo una piccola oasi nel deserto. Il sanguinario regime comunista di Pol Pot negli anni ’70 oltre ad uccidere circa un terzo della popolazione del paese era anche nemico del progresso tecnologico e industriale. Per assurdo questo aveva preservato in parte le aree verdi e soprattutto fatto sopravvivere una delle ultime grandi foreste di pianura, Prey Lang. Mentre per le foreste montuose è più semplice sopravvivere, le aree di pianura di solito sono troppo invitanti per non essere rase al suolo e trasformate in campi. Per questo posti come Prey Lang sono ecosistemi unici, sempre più rari.

Con mia grande sorpresa pochi giorni dopo aver inviato la mia email ricevetti una risposta, era anche positiva. Ouch Leng era disposto a farsi intervistare. E non solo, dato che ci trovavamo in mezzo alle risaie, in un agglomerato di case che a fatica potremmo chiamare villaggio, ci avrebbe raggiunto lui. Arrivò su una grossa auto fuoristrada, era un tipo piccolino con un’unghia del mignolo lunghissima. L’intervista fu un disagio continuo: per evitare cani e bambini eravamo costretti a farla sotto la palafitta in cui eravamo ospitati, dove però ci faceva compagnia il gallo della proprietaria di casa e la sua bambina, che ad un certo punto pensò di regalare ad Ouch Leng uno dei suoi giocattoli.
Quando gli avevo scritto quella famosa email il mio sogno da aspirante reporter in erba non era solo di fargli un paio di domande. Sicuramente non di fargli un paio di domande in un campo mentre la proprietaria di casa friggeva verdure e urlava ai cani. Ma non avrei mai avuto il coraggio di chiedergli niente di più. E invece alla fine dell’intervista lo aveva proposto proprio lui: perché non vieni con me nella foresta a vedere con i tuoi occhi?
Gli avevo scritto un’altra email per organizzare e qualche settimana dopo avevamo un appuntamento. Sarei andata da sola. Avevo preso l’autobus per Phnom Penh la mattina, impossibile sbagliarsi dato che era anche l’unico. Partivo con addosso il mio zainone da 70 litri, l’unico che avevo. Nella criptica mail di istruzioni che avevo ricevuto si diceva che mi sarei dovuta preparare a dormire nella foresta all’aria aperta e portare cibo e acqua per tutti e tre i giorni. Dovevo portarli solo per me o anche per altri? Chi sarebbe venuto? Nel dubbio mi ero fiondata in un supermercato della capitale appena arrivata e avevo preso quello che ogni buon italiano avrebbe preso in queste occasioni, ovviamente tenendo conto della scelta che offre la Cambogia. Avevo pane in cassetta, tonno in scatola, biscotti in quantità e tantissima acqua.
Avevo preso talmente tante cose che mi presentai all’appuntamento con un sacchetto in mano, perché lo zaino era già pieno di bottiglie d’acqua, del sacco a pelo e delle videocamere. Non avevo la minima idea di che cosa mi avrebbe aspettato. Non conoscevo affatto il signor Ouch Leng e stavo per salire sulla sua auto in un paese a me semi sconosciuto, di cui non parlavo la lingua, per andare a cacciarmi in una zona malarica piena di gente armata. Tutto ciò che il buon senso dovrebbe sconsigliare.
Ci incontrammo di fronte al mercato di Phnom Penh, un edificio simile ad una piccola piramide che è anche uno dei miei posti preferiti della città. La macchina era arrivata quasi puntuale, vicino alla fermata degli autobus. Ma il mio nuovo compagno di viaggio era pieno di sorprese, come avrei scoperto presto. Innanzitutto alla spedizione si sarebbe unita un’altra persona. Io ovviamente lo scopro per caso, quando ci fermiamo davanti a un cancello e un uomo sui trent’anni sale in macchina. É May Titthara, un giornalista del Cambodia Daily che lavora con lui da anni.
L’altra sorpresa era che quel pomeriggio non saremmo andati subito nella foresta, ma ci saremmo fermati in villaggio sulla strada. Era il villaggio di May, che aveva aperto lì una scuola dove i bambini potevano studiare inglese ed informatica. Quel pomeriggio i bambini avrebbero piantato un albero con Ouch Leng e imparato il valore della natura. Io potevo presenziare come “stampa internazionale” insegnando ai bambini parole italiane come “ciao” e “pizza”. E cosí ho fatto. Ma mentre quelli che credo fossero dei suoi parenti ci offrivano una porzione di riso e (a detta loro) “organic fish” cominciavo davvero a chiedermi quando ci sarebbe stata finalmente un pò di azione.
Sbrigate le formalità mondane ci rimettiamo finalmente in viaggio e a questo punto sono passate parecchie ore dalla nostra partenza da Phnom Penh. Non ero assolutamente in grado di geolocalizzarmi. Stavamo andando a nord, a sud? Attorno a me vedevo tutto tranne che foreste, anche se a un certo punto avevamo attraversato il Mekong. Alla fine ci eravamo fermati addirittura ad una pompa di benzina a fare la spesa e sbrigare i bisogni fisiologici. Dov’è la natura incontaminata? Ci sono l’autostrada e i negozi? Che peccato per le bocce d’acqua e i chili di pane in cassetta nello zaino che pensavano di partire per una spedizione artica.
Alla pompa di benzina il signor Leng fa incetta di pacchetti pieni di palline bianchicce che ci propinerà per tutti i giorni a seguire. All’inizio penso siano caramelle, ma al primo morso mi rendo conto di quanto mi sbaglio: è una poltiglia a base di pesce. E in macchina ne abbiamo sicuramente di più di quelle che mangerei nell’arco della mia intera vita. Mi convincono a comprare anche un’amaca con zanzariera per la notte, indispensabile secondo loro in zona malarica. Ancora non lo so, ma farà ottima compagnia alle bocce d’acqua e al pancarré sul retro del fuoristrada nei giorni a seguire.
Mi sembra sempre più di partire per un week end in famiglia nel bosco, tanto più che Leng torna dall’ultima sosta sulla strada con due grosse casse di birra e un sacchetto di plastica pieno di ghiaccio per metterle al fresco. L’acqua lasciamola alle zanzare! Ci serviamo subito una lattina a testa, ovviamente compreso il guidatore. Comincio a farmi più di una domanda sulla natura di quest’escursione, ma preferisco per ora affondarle nella birra Angkor calda che stringo tra le mani. Poche ore dopo avrò già fatto colpo per le mie doti da reporter, tanto che i miei compagni di viaggio si complimenteranno con me perché bevo molto di più di quel tipo del National Geographic che hanno accompagnato nel bosco la settimana prima. Quello praticamente non toccava alcolici. Io mi chiedevo intanto cosa ci facesse in loro compagnia una ragazzina come me trattata al pari dei giornalisti veri. Ma nel frattempo pensavo anche tié, National Geographic.
Una volta calata la notte abbandoniamo finalmente la civiltà. So che ci troviamo a Prey Lang, anche se non so esattamente dove dato che la foresta copre un’area più grande della Valle d’Aosta (3600 km2). Finalmente scopro che c’è un motivo se non ci siamo addentrati prima qui ed è che le strade d’ingresso sono tutte sorvegliate da blocchi di polizia. La notte, col buio totale, si puó passare con piú facilità. Ma non è comunque garantito che riusciremo ad entrare né a superare i check point. Bisognerà vedere se avremo fortuna. Io che sono troppo bianca per stare seduta davanti, mi nascondo nell’ombra dei sedili posteriori.
Appena ci addentriamo nel parco, la strada si riempie di mezzi di fortuna che trasportano tronchi. Una folla di persone sta abbandonando la foresta, alcuni hanno in mano una motosega, qualcuno imbraccia un fucile. Noi sul fuoristrada passiamo per assurdo inosservati, perché tutti danno per scontato che siamo degli imprenditori di qualche azienda privata, non certo dei giornalisti o degli attivisti senza una lira. Leng il fuoristrada l’ha appena comprato con i soldi del premio, il Goldman Environmental Prize. Mentre saltiamo su buche tanto profonde da farci battere la testa sul tettuccio mi chiedo come diamine facesse prima, quando veniva qui in motorino.
Arriviamo finalmente all’ultimo checkpoint, quello che deciderà definitivamente le nostre sorti. Ouch e May confabulano in cambogiano. Io ho l’ordine perentorio di restare dietro senza farmi vedere. Perchè se ci fermano, a me non succederà nulla (you will report to the ambassador! dice Leng). Ma per loro invece, nulla è garantito. Il tizio di guardia al check point non sembra molto convinto della nostra versione della storia, fa ripetere mille volte a Leng dove stiamo andando. Ma alla fine non sembra nemmeno gliene freghi più di tanto e si lascia corrompere per la sconvolgente cifra di tre lattine di birra, pescate direttamente dal nostro sacchetto di ghiaccio squagliato.
Passati i controlli, ci addentriamo nella foresta. Non so dove dormirò, non so dove stiamo andando, non so cosa faremo domani. Le risposte alle mie domande sono sempre vaghe o in un inglese che fatico a capire. Arriviamo sotto una palafitta, nel buio totale. Non si vede nulla intorno a noi, saremo finalmente immersi nella natura? Un signore che sembra conoscere Leng beve con noi l’ennesima birra e ci offre del riso bianco con una salsa di pesciolini e peperoncino pestati. Noi mettiamo sul tavolo le temibili palle di pesce. May e Leng appendono sotto alla palafitta le loro amache. Io, che sono l’ospite d’onore, mi stendo sul tavolo di bambù all’aperto e mi addormento come una bambina.
Guarda il video del nostro arrivo a Prey Lang e dell’attraversamento del checkpoint.
CAPITOLO 2: TESTIMONIARE UN PROBLEMA CHE NON ESISTE
La mattina dopo, la polizia ha già chiamato diverse volte il capo villaggio per interrogarlo su chi siamo e cosa facciamo da queste parti. Il capo villaggio, scopro, è quel signore che la sera prima si è bevuto una birra con noi. Io ho dormito sul suo tavolo.
Mi alzo in piedi e finalmente con la luce posso farmi un’idea del posto in cui ci troviamo. Siamo circondati da arbusti e da alcune palafitte abbastanza spartane. Nel frattempo Leng mi avvisa che la colazione è servita e non è altro che gli avanzi della sera prima: birra, riso e pesce (cioè palle di poltiglia di pesce). Questa volta, tronfia dalla mia vittoria sul giornalista del National Geographic, decido di passare per la birra. Alla colazione preferisco camminare attorno alla palafitta e ascoltare il frusciare delle foglie. Non vedo l’ora di fare un bagno nella natura, tra l’altro l’unico disponibile dato che qui le docce sono inesistenti. I servizi igienici della palafitta consistono in una casupola di lamiera che ripara un buco nel terreno.
Finalmente ci mettiamo in marcia anche se, tanto per cambiare, non ho idea di dove stiamo andando né di cosa stiamo facendo. Le spiegazioni sono sempre confuse, marginali e di solito postume agli avvenimenti e piene di nomi di località che non so ritrovare sulla mappa. Per esempio ora si sta unendo a noi anche un ragazzo, spuntato all’improvviso da una delle capanne. Indossa dei jeans, una camicia a maniche lunghe e un cappellino da baseball che deve aver passato momenti migliori. Si chiama Choy e dopo qualche domanda capisco che è uno dei migliaia di cambogiani ad essere stato vittima di land grabbing (secondo Global Witness solo tra il 2003 e il 2005 sono stati 400.000, quasi mezzo milione). Il land grabbing è un fenomeno per cui un’azienda privata acquista dallo stato in modo più o meno legittimo la terra su cui la tua famiglia vive magari da generazioni. E da un giorno all’altro vieni buttato fuori dalla tua casa, senza troppe spiegazioni. Ma non ci puoi fare nulla, perché vivi in una desolata provincia nel bosco, in un paese che non ha mai registrato la tua proprietà. Perciò formalmente non esisti e stai occupando un terreno statale in modo illegittimo. Nella foresta di Prey Lang vivono 250.000 persone, che dall’inizio di questo secolo vivono nel terrore di perdere da un giorno all’altro i piccoli orti da cui dipendono per sfamarsi e le palafitte di legno in cui vivono.
Approfondisci: come la deforestazione crea forti problemi sociali oltre ai più ovvi problemi ambientali.
La situazione è peggiorata molto quando nel 2005 il governo ha introdotto il sistema delle ELC (Economic Land Concession). Le ELC nella teoria servono per assegnare ad aziende private terreni agricoli, ma vengono spesso utilizzate per concedere ai privati ampie porzioni di bosco da radere al suolo. Secondo Global Witness, i 70% delle concessioni viene data all’interno di parchi nazionali ed aree protette. Non avendo altre alternative, molti ragazzi come Choy finiscono ad elemosinare un lavoro in un’azienda privata, oppure a tagliare alberi. Lui invece ha fatto una scelta diversa: guida Leng lungo i sentieri con uno smartphone in mano, per aggiornarlo su cos’è successo in sua assenza. Il telefono, regalo di Leng, gli serve per fotografare e riprendere le attività delle falegnamerie abusive.
La foresta, ora che ci siamo, non è proprio l’idillio verde che speravo. Tra gli alberi si nascondono ampie radure con montagne di tronchi tagliati, ognuno con un codice. I numeri corrispondono alla falegnameria che li ha tagliati – i tronchi sono lì che aspettano di essere caricati su un camion e poi probabilmente su un container pronto a salpare dal porto di Sihanoukville, nel sud del paese. A Leng e May quei numeri interessano particolarmente, perché stanno investigando su una falegnameria di proprietà di un parente diretto del primo ministro cambogiano Hun Sen, che guida il paese ininterrottamente dal 1993. Negli anni 2000 nei video ufficiali Hun Sen aveva dichiarato che se la deforestazione illegale fosse continuata avrebbe tagliato la testa ai responsabili. Che la foresta era vita per il suo governo e che si poteva rinunciare al guadagno pur di non perderla. Hun Sen significa onesto, ripeteva, Hun Sen non sa come ingannare la gente.
Secondo la versione ufficiale del governo, ormai deforestazione è stata debellata con successo. Ci sono solo concessioni agricole, che portano lavoro e progresso per tutti. Proprio per questo uno dei lavori più importanti e impegnativi degli attivisti è documentare ogni albero tagliato con foto e coordinate GPS. Per testimoniare che quei tronchi stesi esistono, che si trovano proprio lì e che Hun Sen non è stato onesto per niente. Anche se il primo ministro dichiara che la sua unica fonte di reddito sia il suo stipendio da politico (poco più di 1000 $ al mese), la sua famiglia possiede un patrimonio stimato tra 500 milioni e un bilione di dollari.
Quando sono partita pensavo sinceramente che saremmo dovuti andare a caccia dei delinquenti. E invece sono qui da meno di 24 ore e le prove sono tutte intorno a noi, è pieno di manovali che trasportano tronchi, li abbandonano nel bosco, girano armati. Più che un’operazione segreta mi sembra di guardare un formicaio brulicante di attività. Ma a quanto pare anche davanti all’evidenza è possibile negare e dal 2016 l’area in cui mi trovo, sempre più simile ad un campo che ad un bosco, si chiama “Prey Lang Wildlife Sanctuary”.
Ad un certo punto sentiamo un forte rumore di motosega, siamo vicini ad una falegnameria. Leng e May ci sono già stati diverse volte, la conoscono bene. Per entrare Leng di solito usa dei travestimenti: negli anni è stato un commerciante di legname, un cuoco, un manovale. L’ultima volta che hanno provato ad entrare qui si sono portati dietro un monaco e hanno finto di voler costruire un nuovo tempio nella foresta. Sono stati arrestati ed interrogati per due ore. Per questo oggi Choy sarà i nostri occhi all’interno della falegnameria. Leng gli consegna un cilindretto arancione e qualche banconota. Io come al solito sono confusa. E’ una telecamera nascosta, mi spiega Leng mentre ci sediamo nell’erba alba a debita distanza. Choy è entrato dentro con la scusa di comprare qualcosa e con il cilindretto arancione nascosto nella manica speriamo riesca a riprendere quello che vedrà all’interno.
Al suo ritorno intuisco che qualcosa non va del tutto per il verso giusto, perché poco dopo ci spostiamo di nuovo al villaggio, dove Leng recupera un motorino e ritorna verso la falegnameria, sperando di riprendere qualcosa mentre Choy è alla guida. May ed io intanto restiamo a goderci l’ombra davanti ad una delle case del villaggio, in compagnia di una signora magra e rugosa. Quando provo a riprenderla, in tutta risposta lei esibisce di fronte alla telecamera in un rumoroso sputo, che lascia una bella chiazza di catarro sulla sabbia. Poi si gira verso May corrucciata e fa qualche domanda. Non so cosa si siano detti nella realtà, ma nella mia testa era suonato come un “che fa la ragazzina bianca, pensa di essere in vacanza a Sihanoukville?”. Sbirciando dietro di lei intanto scopro finalmente come si fa la doccia da queste parti: il rubinetto dell’acqua comune che si trova in mezzo alle palafitte è la doccia. Una signora con dei bambini, completamente nuda a parte un pareo, si lava coprendosi come può con la stoffa. Non ci sono separé e tutto attorno a lei vivono i suoi vicini. Mi sembra di aver fatto un salto in un altro secolo.

Leng nel frattempo torna dalla caccia senza buone notizie: il telefono con cui doveva riprendere si era scaricato. Ma in compenso ci aveva procacciato tra gli alberi una manciata di erbe. “Lunch” aveva detto. E aveva aggiunto che se volevo potevo portare con me un po’ del cibo che avevo comprato, perché avremmo pranzato in una delle case del villaggio. Avevo preparato la mia selezione: pancarré e tonno. Ai piedi della palafitta c’erano i cani e i maiali della famiglia e al piano superiore la proprietaria ci aveva cucinato il riso. Era la seconda casa in un cui entravo e intuivo che fossero tutti vagamente parenti di Choy. Ma forse erano tutti imparentati in quel villaggio di dieci palafitte?
Nella casa non c’era nulla, a parte le stuoie per dormire e qualche stoviglia in un angolo. Dopo due mesi nei villaggi cambogiani per me era la quotidianità, ma questa casa era diversa: era di gran lunga la famiglia più povera che avessi visto fino ad allora. La signora non aveva il sapone né la spugna per lavare i piatti. Prima di usarli per servirci il pranzo li aveva strofinati con le sole mani, a mollo in una tinozza d’acqua probabilmente piovana o di fiume nella migliore delle ipotesi. Choy e May intanto tagliavano a fette degli ortaggi verdi che non avevo mai visto e preparavano il solito pestato di peperoncino e pesce. A dire la verità, il peperoncino era un po’ ovunque. Da queste parti è l’unico rimedio contro la malaria, perché pensano che mangiandolo la loro pelle diventerà indigesta per le zanzare. Anche io faccio la mia parte in cucina e servo come posso il tonno e il pane di cassetta. Il pesce riscuote un certo successo, mentre il pane molliccio viene accolto quasi con ilarità. Cosa voglio, sono nella patria del riso, dove la baguette si mangia come spuntino a merenda.
Nel pomeriggio torniamo nella foresta con Choy: sua mamma non vuole che si cacci nei guai e non è molto contenta delle avventure da attivista del figlio. Lo sa che quegli altri sono armati, mentre lui ha solo un cappellino da baseball sgualcito. Questa volta non camminiamo, ma saliamo su una sorta di rudimentale carro a motore che da queste parti viene usato anche dai loggers per il trasporto dei tronchi. Leng insiste perché riprenda tutto: vuole le prove dei carri carichi di legna, dei contadini con la motosega sottobraccio. Ci tiene che torni in Italia con la testimonianza che tutto questo non è solo una sua fantasia personale.
CAPITOLO 3: UN NUOVO TIPO DI FORESTA, PIU’ PRODUTTIVA
La sera stessa riprendiamo la macchina. Salutiamo il villaggio per spostarci in un’altra zona della foresta. Ma la strada dissestata ci fa un ultimo regalo: dopo pochi chilometri restiamo impantanati. Sarebbe la stagione delle piogge e la situazione dovrebbe essere molto peggiore di questa, ma è un po’ di anni che il clima sta cambiando. Ormai piove pochissimo e in quei tre giorni insieme a Prey Lang non avrebbe piovuto proprio mai. Ciononostante ci sono comunque tratti molto bagnati e noi ci ritroviamo proprio in uno di quelli, a spingere l’auto con il fango fino alle ginocchia. Ma come diavolo facevano a fare le stesse cose in motorino, prima?

Mentre torniamo lentamente alla civiltà passiamo davanti a vaste aree di terreno bruciato, ma anche tanti nuovi alberelli, piantati in file precise. Mi sembra un buon segnale, perché come al solito non ho capito nulla. Sono piantagioni di gomma. Secondo il primo Hun Sen, sono il futuro del paese e si tratta di una “riforestazione produttiva”. Le aziende ufficialmente vengono qui a riqualificare zone piene di sterpaglie, ma nella realtà tagliano tutta la legna di valore e in particolare gli alberi di palissandro, la cui vendita sarebbe ufficialmente illegale. Un container di palissandro di buona qualità può valere fino a 5 milioni di dollari. Con questo legno rossiccio si producono i pregiati mobili Hongmu, tornati di gran moda tra i nuovi ricchi cinesi. Una volta che tutti gli alberi di valore sono stati venduti, si dà fuoco a ciò che resta e si pianta qualcosa di più redditizio, come la canna da zucchero e la gomma.
La gomma naturale sarà sembrata perfetta al primo ministro per rieducare le popolazioni della foresta. E’ in posti come questi che dopo la caduto di Pol Pot, il regime comunista degli anni ’70, si nascondevano i guerriglieri. Chi vive nella foresta fa naturalmente una vita al margine della società: qui non esiste lo stato così come non ci sono servizi pubblici, autorità, negozi. La popolazione locale vive prevalentemente di ciò che gli offre la natura e di agricoltura. Una delle fonti di sussistenza più importanti sono gli alberi della resina. La raccolta di resina da questi alberi è molto simile all’estrazione della gomma naturale: si taglia la corteccia dell’albero e sotto si mette un secchio per raccogliere la secrezione che ne esce. La differenza tra la raccolta della resina e della gomma è che la gomma è più redditizia e controllata dallo stato. Gli alberi della resina crescono selvatici e liberi nella foresta. I piccoli alberi di gomma che crescono in file precise invece somigliano alla società ideale che ogni dittatura sogna: ordinata e rieducata.
Ci fermiamo ad una bancarella fumante e Leng torna con un sacchetto pieno di cibo bollente. E’ carne di bufalo secca grigliata, calda, deliziosa e dura da masticare come la gomma degli alberi che abbiamo appena passato. Continuo a mangiarne, ma dopo ogni pezzo sento la mascella talmente dolorante che temo mi si possa slogare. Anche la birra torna a scorrere a fiumi, malamente raffreddata nel solito sacchetto di plastica pieno di ghiaccio ai nostri piedi.
La sosta mi riserva altre sorprese, oltre a quelle gastronomiche: un motorino con due persone si avvicina alla nostra macchina. Un ragazzo scende, si affaccia dal finestrino e saluta con entusiasmo May e Leng. Avrà al massimo vent’anni, un baffetto poco pronunciato, una maglietta colorata e un cappellino da baseball. Questo cappellino da baseball, per lo meno, non sembra passato sotto un carro armato. Ripartiamo e alle mie domande viene solo risposto che stiamo andando a trovare un posto per dormire e il giorno dopo indagheremo in un’altra zona. Ah, aggiunge May: il ragazzo che abbiamo incrociato è il figlio di Chut Wutty.
Chut Wutty è un nome che chi si interessa alla deforestazione in questo paese non può non conoscere. Degli attivisti che si battono per le foreste da queste parti è stato uno dei più amati, noti, carismatici. Il 26 aprile 2012 aveva accompagnato una giornalista del Cambodia Daily ad indagare nei monti Cardamomi, nel sud del paese. Non era più tornato. Una guardia gli aveva sparato mentre si trovava nella sua auto, con la giornalista proprio accanto a lui. Secondo la versione ufficiale, i colpi erano partiti perché anche Wutty aveva in mano un’arma ed era pronto a sparare.
Mentre rivivo nella mia testa tutto quello che ho letto su Chut Wutty, ci fermiamo ad una pompa di benzina sgangherata per bere qualcosa con quelli che sembrano degli amici di Leng. Compriamo dei lunghi fagioli verdi e un’altra cassa di birra, la giornata lavorativa ormai è ufficialmente finita anche se io continuo a riprendere. Uno degli amici in questione abbraccia Leng, inizia a fare smorfie davanti alla videocamera e a dire “ecco, fai vedere quanto siamo cattivi”. Leng gli porge la lattina per brindare e scherzando dice “he is the real defender”, è lui il vero difensore della foresta. Ridiamo tutti, ma in fondo penso che un po’ è vero. Senza la rete di persone del posto che aiutano gli attivisti l’investigazione non potrebbe andare avanti.
Si uniscono a noi anche il figlio di Chut Wutty (che scopro chiamarsi Cheuy) e l’altra persona che girava con lui in motorino. E’ un giornalista radiofonico. A differenza degli altri, che sto riprendendo 24 ore su 24 senza problemi, non vuole essere filmato e non vuole nemmeno che mi appunti il suo nome. Non voglio essere intervistato, non voglio essere nominato, mi dice. A quanto pare prende le minacce di morte e il rischio di arresto molto seriamente.
Ripartiamo alla volta di una cittadina ai margini della foresta in cui le strade sono asfaltate e le case fatte di cemento. Siamo arrivati ad un hotel. Guardo il povero sacco a pelo con zanzariera sul retro del fuori strada, vuoto e inutile di fronte ai prodigi della modernità. Poco dopo, stiamo mangiando in un ristorante, alla faccia delle mie scorte di acqua (mai toccate) e del pane in cassetta.
Dopo parecchio cibo e (ovviamente) birra, sono pronta a godermi la prima doccia di quei due giorni. Indosso sempre gli stessi pantaloni pieni di fango, gli unici che possiedo lunghi e spessi abbastanza da proteggermi dalle punture di zanzara. E’ una tuta adidas contraffatta, comprata al mercato di Kampot per l’occasione. La tolgo e mi stendo sotto le lenzuola fresche.
Approfondisci: i motivi della deforestazione, dall’agricoltura intensiva al traffico di legno di palissandro.
CAPITOLO 4: UN’INVESTIGAZIONE FINITA MALE
La mattina del giorno dopo ci stipiamo tutti e cinque sul fuoristrada. La notte in albergo mi ha lasciato come ricordo un grosso morso d’insetto (credo) sulla gamba. Leng ha già pagato per le stanze di tutti, me compresa, così come la sera prima ha offerto la cena. E non ho neanche la possibilità di declinare. Da quando mi ha caricata a Phnom Penh mi sta facendo sentire come un’ospite di famiglia, anche se sono solo una ragazzina sconosciuta con una videocamera in mano.
Sulla strada sale una sesta persona e i sedili dietro diventano un tetris di corpi, mentre io cerco di continuare a riprendere quello che posso attraverso i finestrini oscurati. Il nostro nuovo compagno di viaggio è Cheang, da anni parte del Prey Lang Community Network (PLCN). Quella del PLCN è una di quelle storie che conquista il pubblico: un movimento popolare per salvare la foresta. E’ formato da persone dei villaggi di Prey Lang che si organizzano in pattuglie di guardia per fare il lavoro che dovrebbe fare la polizia. Controllano i boschi, fermano i taglialegna, sequestrano moto seghe. Di solito gli fanno anche firmare dichiarazioni in cui promettono di non tornare mai più a disboscare. Quasi tutti i documentari internazionali su Prey Lang parlano di loro, di come difendono eroicamente la foresta, del loro legame atavico con la terra e gli alberi di resina. Eppure negli anni sono sempre più soli. Dopo il duro colpo della morte di Chut Wutty, un attivista fondamentale per il movimento, molti hanno mollato. A marzo del 2016 anche un membro del PLCN ha subito un attacco in cui ha rischiato di prendere un piede con un colpo di accetta, ma solo perché l’aggressore l’aveva probabilmente scambiato per la sua testa.
La zona che stiamo attraversando oggi sembra una grande piana agricola. Non ci sono più alberi, solo distese sterminate di canna da zucchero. Un’altra pianta decisamente più utile e redditizia per sostituire un altro pezzetto di giungla. L’intera coltivazione è divisa tra 5 proprietari diversi, che sono alla fine la stessa azienda, che fa capo allo stesso magnate cinese. E non c’è bisogno di un sistema molto complesso per nascondere questo giochetto, è chiaro a chiunque ascolti i nomi dei proprietari: Lang Fei, Roi Fei, Fei Lang…
Cheuy scende dall’auto con un occhiale da sole specchiato da vero divo. Sui social network si chiama “Chut Wutty son” e così si era presentato a me la sera prima. Per sapere il suo vero nome avevo dovuto chiedere espressamente a Leng, perchè anche loro a volte si riferivano a lui semplicemente come “Chut Wutty son”, come si trattasse di un’emanazione del padre. E’ lui l’anima social del progetto ed è anche il più giovane degli attivisti. Ad oggi la sua pagina facebook “Chut Wutty Son hot news”, ha quasi 15.000 follower. Cheuy toglie l’occhiale da sole e si piazza in mezzo al campo mentre il tizio della radio, quello che preferisce essere invisibile, lo riprende. “It hurst my pride as a Cambodian”, dice. Mi offende come cambogiano vedere quello che le aziende private cinesi hanno fatto qui. Quando ci veniva da ragazzo con il padre qualche anno fa, questa zona era ancora foresta. Mi guardo in torno in direzione dei campi e della fabbrica per la trasformazione dello zucchero e faccio fatica ad immaginarlo. E’ il mio terzo giorno con loro e ancora non mi capacito di quanti pochi alberi ho visto.
Approfondisci: morire per raccontare, come e perché gli attivisti rischiano la vita ogni volta che indagano.
Intanto “Chut Wutty son” finisce la diretta, ringrazia e chiede di condividere il video per far conoscere la situazione. Risaliamo in macchina e questa volta è ora di riprovarci con una falegnameria. Lungo la strada ci fermiamo davanti ad un edificio dallo scintillante tetto azzurro, tutto nuovo, dove scattano delle foto. Chiedo di cosa si tratti, ma non lo sanno ancora: forse una fabbrica, ma qui tutto viene costruito così velocemente.
Poi ci fermiamo con l’auto nel bel mezzo di una strada a lato di quello che sembra un innocente campo di riso, uno dei tanti. Da qui in poi dobbiamo proseguire a piedi fino alla falegnameria. Non possiamo andare tutti, saremo solo io, Leng, Cheuy. Io li seguo in silenzio nei campi fangosi con la mia gopro. Quello più ansioso di tutti è Leng: abbiamo fatto qualche decina di metri quando all’improvviso sente dei rumori e si blocca di scatto. Dice a Cheuy qualcosa in cambogiano che non capisco. Si sentono dei motorini. Aspettiamo qualche minuto, poi Cheuy si volta verso di me e mi dice “we must go”. Torniamo velocemente verso la macchina, attraversando un canale che ci riempie di fango fino alle caviglie. Sulla strada Leng e Cheuy parlano con alcune persone a bordo di un motorino. Dietro di noi ne arrivano altre, che imbracciano dei fucili. “Go to car” mi dice Cheuy.
Stavamo solo attraversando un campo di riso.
CAPITOLO 5: GALLINA ARROSTO E MINISTERO DELL’AMBIENTE
E’ pomeriggio inoltrato e siamo stanchi. Non per il fisico, ma per le emozioni. Dopo essere saltati di nuovo in macchina, ci siamo allontanati verso il primo posto sicuro: la casa di Cheang. Ci è andata di lusso, il mio primo incontro con i fucili poteva finire nel migliore dei modi con un arresto e una detenzione di qualche ora. Ma ce ne siamo andati subito, senza cercare di fare gli eroi. Contro questa gente non c’è storia: vincono sempre loro.
Cheang ci sta preparando il pranzo. Prende uno dei polli nel cortile, gli tira il collo e lo sventra. Poi accende un falò e lo cuoce lì davanti ai nostri occhi. Ad accompagnarlo ci sono i lunghissimi fagioli e come sempre tante lattine di birra. Non possiamo più tornare nel bosco, non perché abbiamo paura a riprovarci, ma perché abbiamo ricevuto una telefonata importante.
Leng è stato invitato a partecipare al nuovo forum sull’ambiente organizzato dal governo. Si parlerà di foreste e della nuova task force istituita del ministro dell’agricoltura. Ma lui non parteciperà. Non perché teme per la sua vita, ma perché questi eventi di solito si concludono con finte premiazioni degli eroi della foresta riconosciuti dal governo, gente che non ha mai visto Prey Lang o che collabora con le ONG a programmi di dubbia utilità. I don’t wanna challenge with the fake heros, non voglio confrontarmi con i loro finti eroi, dice Leng. E poi seguirebbero interviste, trasmesse sulla tv nazionale e riprese dai giornali: e la sua faccia sarebbe ovunque, chiaramente riconoscibile a tutte le guardie che a Prey Lang controllano le falegnamerie e i check point.
Lui non andrà, ma May è stato richiamato dal suo giornale e dovrà partecipare. Dobbiamo rientrare a Phnom Penh. Giro qualche ultima intervista e siamo costretti a lasciare la foresta di Prey Lang, che mi sembra di conoscere ancora troppo poco. L’autostrada verso la capitale è una vera ecatombe di camion pieni di legna. Ancora mi chiedo come si possa fingere che il problema non esista: continuiamo a superare mezzi pieni di legna, ed è un qualsiasi giorno lavorativo di agosto.
Approfondisci: collusione tra il governo e le aziende che disboscano.
Ad un certo punto passiamo davanti ad un’enorme tenuta, con un cancello sotto il quale potrebbero passare diversi autobus. E’ la villa di Oknha Try Pheap, un magnate cambogiano talmente famoso per il suo ottimo lavoro a Prey Lang da essere stato soprannominato “the king of rosewood”, il re del palissandro. May sta guidando, mentre io sono stata promossa al sedile di fronte dove ho il compito ufficiale di tenere le birre in fresco e passarle agli assetati dei sedili dietro. Appena passiamo davanti alla proprietà le voci si fanno concitate e Cheuy inizia a riprendere di nuovo. Chiedo a May cosa sta succedendo. Cheuy sta spiegando ai suoi follower come il denaro sporco che Try Pheap ha guardagnato a Prey Lang venga oggi riciclato in nuove attività, come pompe di benzina e fabbriche in cui si produce carta.
“I have been inside”, sono stato lì dentro, dice May. All’epoca gli avevano offerto uno stipendio di 5000 $ al mese per smettere di occuparsi del disboscamento. Gli chiedo se forse intende 500 dollari al mese, dato che lo stipendio medio nel paese è di 300 $. No, intende proprio dire 5000 dollari, uno stipendio che perfino io in Italia posso solo sognare, il tutto per rinunciare al diritto di scrivere e non dover più rischiare la propria vita.
Restiamo un po’ in silenzio, mentre Cheuy continua a strillare ai suoi follower attraverso il cellulare sul retro. Poi May in sovrappensiero si volta verso l’edificio proprio fuori dal mio finestrino. Chiedo di cosa si tratti. Forse sono degli altri uffici di Try Pheap, o una delle sedi da cui gestisce le sue società. Questo, mi dice May, è l’ufficio per l’ambiente.
Un ufficio del ministero dell’ambiente, a pochi metri dal portone di casa del re del palissandro.
CAPITOLO 6: NIGHTMARKET
Sono passate le dieci quando arriviamo a Phnom Penh. Lasciamo a casa Cheuy e l’innominabile, il giornalista radiofonico. Io, May e Leng ci dirigiamo verso il mercato notturno in cerca di cibo. Non riesco più a contare i pasti che abbiamo fatto in quella giornata, considerando anche i continui spuntini a base di carne di bufalo alla brace. Ma non ho la possibilità di declinare, di nuovo Leng ordina lattine di birra a profusione e meraviglioso cibo cambogiano per tutti. Piatti di riso, pesce e verdure riempiono il tavolino di plastica.
Facciamo un altro incontro, un amico di Leng, questa volta chiaramente caucasico. Si chiama Markus Hardtke, un nome che non ho mai sentito prima. Scoprirò qualche giorno dopo, facendo di ricerche su internet, che è un altro degli attivisti ambientali più importanti del paese. Hai avuto una fortuna sfacciata in questi giorni, mi aveva detto May. In tre giorni hai incontrato tutti quelli in questo paese a cui importa qualcosa della foresta.
L’argomento a tavola è solo uno. Cosa sta succedendo a Prey Lang, quali sono le ultime evoluzioni, come sta andando l’articolo che Leng e May stanno preparando insieme. Markus ha un lungo codino biondo e indossa una maglietta azzurra con la scritta “save the ocean”. E’ arrabbiato: si trova in Cambogia da più di 10 anni e conosce molto bene il sistema degli aiuti internazionali e sa che nella maggioranza dei casi non aiuta i diretti interessati. Dopo qualche minuto capisco che quello che sta dicendo è importante, molto importante. E anche se sono veramente distrutta, accendo la telecamera, punto i gomiti sul tavolo sporco di salsa e premo su rec.
Approfondisci: le ONG attive a Prey Lang spesso fanno più danni di quanto aiutino gli attivisti.
Alla fine dell’intervista mi sto letteralmente addormentando sul tavolo. Leng ha ordinato un altro giro di birra, ma faccio fatica a tenere gli occhi aperti. Paghiamo il conto e ce ne torniamo alla macchina. Non so cosa farò stanotte, non ci ho ancora pensato. Non ho un posto dove andare a dormire in città e il villaggio tra le risaie in cui vivo dista più di due ore di autobus. La mezzanotte è passata da un pezzo. Senza che lo chieda, May mi porta a dormire a casa sua.
La mattina dopo mi sveglio su una stuoia in quello che sembra un salotto. Quella che potrebbe essere la nonna di May mi guarda corrucciata, insieme a un gruppo di altri parenti. Mi offrono qualcosa da bere e mi accompagnano in bagno. Ho il ciclo, ma non ho il coraggio di cambiarmi: non posso lasciare un assorbente nel bagno che usa sua nonna. La Cambogia non è proprio un paese in cui ci si porta a casa alle due e mezza di notte una ragazza bianca sconosciuta, per di più piena di fango. Mi sento molto in colpa per May, perché spero di non averlo messo in una situazione spiacevole con la sua famiglia. D’altronde ieri sera non ero nella condizione di pensare lucidamente ad un’alternativa.
Lui non dice niente e si offre di accompagnarmi alla fermata dell’autobus col suo motorino. Sono talmente frastornata che mi dimentico di avvisare l’autista del bus di fermarsi quando arriviamo al mio villaggio, scendo diversi chilometri più avanti e mi devo far dare uno strappo fino alla palafitta da un motorino.
Quando finalmente arrivo Federico mi viene incontro, vuole sapere com’è andata.
E com’è andata? Non lo so neanche io. Tre giorni che sono volati, tra cene, birra e diversi tentativi di entrare all’interno di una falegnameria. E so solo che il materiale che ho mi sembra poco, insufficiente, lacunoso. Vorrei stare qui un altro mese solo ad occuparmi di questo e invece il mio volo di rientro è tra una settimana. Non c’è più tempo e riguardo i video fatti senza stabilizzazione, senza preavviso, senza sapere che telecamera portare. Altri sono stati girati di nascosto dai sedili dietro del fuoristrada che saltava sulle buche. Le ultime interviste le ho fatte usando una borsa frigo di plastica come cavalletto per la telecamera.
Ma so che il vero problema non è la qualità tecnica del girato. E’ che io non so ancora nulla: loro conoscono a memoria i nomi dei magnati e delle aziende che stanno dietro al disboscamento, conoscono la gente del posto, denunciano questo problema senza risultato da quasi quindici anni, nel loro paese e di fronte e troupe televisive venute da tutto il mondo.
E cosa posso dire in più di quello che fanno loro? E a qualcuno interesserà ascoltarlo?
CAPITOLO 7: QUATTRO ANNI DOPO
E’ incredibile quanto passi velocemente il tempo. In meno di un anno dal mio ritorno mi sono trasformata dalla giovane laureata che voleva scrivere reportage e trasferirsi all’estero in un’impiegata che ha affittato casa in un paesino della provincia di Como. Ho scelto un lavoro che mi permettesse di viaggiare e mi sono detta che alla fine è questa la cosa che contava veramente per me. Che un giornale non mi avrebbe mai dato questo stipendio e questa libertà di girare il mondo. Molto probabilmente avevo ragione. E poi, mi dicevo, potevo continuare a scrivere e riprendere nel mio tempo libero e farlo alle mie regole. Anno dopo anno mi tornava alla mente quello che avevo girato a Prey Lang e sapevo che dovevo farci qualcosa. Quando è iniziata la quarantena tutte le scuse sono venute meno: il tempo, il lavoro, il computer malandato.
C’è un’altra cosa a cui penso spesso da quando sono tornata. Ho paura un giorno di cercare su internet il nome di Ouch Leng e scoprire che è stato ucciso. So che è una possibilità reale. Ogni tanto nel corso di questi anni ho anche controllato, ma quando a marzo 2020 ho aperto una nuova pagina di Chrome era un po’ che non davo un’occhiata. ho scritto il suo nome, premuto invio e aspettato che si caricassero i risultati.
Quello che ho visto non mi ha sorpreso, ma mi ha fatto tirare un mezzo sospiro di sollievo. Non era morto, ma era appena stato arrestato con altri attivisti per violazione di terreno privato. Si trovava davvero su una proprietà privata senza permesso? Probabilmente sì. Ma quando un terreno pubblico viene concesso in modo arbitrario e poco chiaro dallo stato ad un’azienda privata, che validità ha quella proprietà? Per uno che crede ancora che la foresta sia un bene di tutti, nessuna. Mi chiedo anche se una violazione del genere possa giustificare la reazione della polizia: tre giorni di reclusione senza processo e sequestro totale di tutti i beni che gli attivisti avevano con sé: soldi, telecamere e un drone, cellulari, GPS, perfino i motorini.
Ogni tanto controllavo su internet anche i nomi dei miei altri compagni di viaggio: May, Markus e Cheuy sono ancora tutti vivi e non hanno smesso di dedicarsi alla foresta con una dedizione eroica. Eroica perché ogni anno che passa vedono sempre meno alberi e meno speranze di potercela fare, ma i rischi per loro restano sempre gli stessi. Nonostante i reportage e le donazioni internazionali, nessuno in questi quattro anni ha fatto veramente qualcosa per fermare Hun Sen e la sua cerchia di oligarchi. La situazione è praticamente la stessa di prima, ma ancora più disperata perché più il tempo passa più tutti gli sforzi sembrano inutili. E tra tanti millantatori che si dichiarano protettori foresta è sempre più difficile distinguere i “real defenders”.
Ad aprile ho anche scritto a Leng per chiedergli come stesse. Mi aveva risposto “I’m broke”, un’espressione inglese che significa essere al verde, ma che letteralmente in italiano si tradurrebbe con “essere a pezzi”. Perché non è solo perdere soldi e strumenti di lavoro a distruggerti: è il continuo abuso, è il sentire che il manico del coltello è sempre in mano loro. Gli ho risposto che forse è proprio quando non si vede la fine del tunnel che forse ci si avvicina. Più gli abusi si faranno gravi, più forse i cambogiani diventeranno intolleranti. Ma quanto in là più bisogna spingersi perché la situazione esploda? Quanti Chut Wutty dovranno morire nel frattempo?
Con questi pensieri in testa mi sono messa a montare e poi a scrivere. Quando ci sono di mezzo così tante emozioni ho imparato che la cosa che mi riesce meglio sono le parole. Non potevo parlare solo di numeri e statistiche: volevo scrivere qualcosa su di loro. Sui sacchetti di ghiaccio e birra in macchina, sulle buche, sulle chiacchiere nei villaggi e sulla paura quando le cose si mettono male.
Nel 2018 in Cambogia ci sono state le elezioni, probabilmente le meno libere di sempre. I membri dell’opposizione sono stati arrestati o gli è stato impedito di rientrare nel paese. I giornali non sono stati messi nella condizione di fare il loro lavoro, soprattutto quelli in lingua inglese. Il Cambodia Daily è stato accusato di evasione fiscale e costretto per un certo periodo a chiudere. Il Phnom Penh post è stato acquistato dal magnate malesiano Sivakumar Ganapathy, vicino al primo ministro Hun Sen. Gli spazi per l’opposizione si riducono ogni anno che passa.
Nel frattempo, la Cambogia continua a ricevere milioni di aiuti internazionali ogni anno. Nel 2019 USAID, l’agenzia americana per lo sviluppo internazionale, ha deciso di investire altri 21 milioni di dollari solo nella preservazione della foresta di Prey Lang. Questi soldi di solito vengono investiti in corsi per le persone dei villaggi e costose indagini sulla flora e la fauna, perfette se volete avere un elenco esaustivo di tutti gli animali che stanno lentamente perdendo il loro habitat. Nel frattempo dal 2017 il governo obbliga il Prey Lang Community Network a dare un preavviso di 3 giorni tutte le volte che vuole organizzare una pattuglia nella foresta, così i taglialegna hanno ampio preavviso per prepararsi. Forse per scaramanzia quest’anno hanno anche vietato ai monaci buddisti di benedire gli alberi, una pratica religiosa che i cambogiani eseguono da generazioni ogni anno per proteggere Prey Lang.
Cosa fare per cambiare una situazione del genere è una domanda a cui forse non riuscirò mai a trovare una risposta, sempre che ci sia. Mi piacerebbe dirvi che testimoniare, che scrivere quello che vivono queste persone è un passo verso la risoluzione. Forse è vero, il giornalismo è importante, ma internet è pieno di ottimi scrittori. Sono stati accompagnati da fotografi e troupe con telecamere costose e hanno fatto probabilmente un lavoro migliore del mio, senza risultato.
Eppure eccomi qua, a parlarvi di un’altra foresta che stiamo perdendo velocemente, una delle tante del terzo mondo e che non ha nemmeno l’attenzione mediatica dell’Amazzonia. Un posto di cui vi dovrebbe importare tanto quanto vi importa di non sprecare sacchetti di plastica e cercare di mangiare in modo più ecologico. Perché sembra retorico quando riascolto nelle interviste Leng ripetere continuamente che la foresta è un bene di tutti. Eppure è così e ogni volta che un Ouch Leng viene arrestato o un Chut Wutty viene ucciso, lo sta facendo anche per voi.
Foto satellitari che testimoniano la scomparse della foresta di Prey Lang dal 1999 al 2016 (fonte google maps timeline ).
- Il sito del Goldman envirnomental prize, con la storia di Ouch Leng e altri attivisti internazionali
- Il lavoro di indagine di Global Witness in Cambogia e in particolare i reportage Giving a Cut (Darci un taglio, 2004), Rubber barons (I baroni della gomma, 2013), The cost of Luxury (il costo del lusso, 2015) e Hostile takeover (2016, sulla famiglia di Hun Sen).
- Forest Trend, un’associazione che si occupa di deforestazione nel mondo e produce report al riguardo. Consiglio in particolare il report sulla Cambogia e il report sul traffico di legno di palissandro verso la Cina e altri paesi (entrambi del 2015) e quello sulla riconversione agricola delle foreste nel sud est asiatico del 2018.
- Il sito web del Prey Lang Community network
- I siti web delle principali testate cambogiane, disponibili in lingua inglese: il Phnom Penh post, lo Khmer Times e il Cambodia Daily.
- La Cambodia Human Right Task Force, l’associazione di Leng che raccoglie fondi contro la deforestazione
- La sezione di VOA (Voice of America) dedicata alla Cambogia
- Il report della FAO 2020 sullo stato delle foreste.
Video documentari da vedere sul tema:
- Il documentario “I am Chut Wutty” di Fran Lambrick sulla morte dell’attivista disponibile a noleggio per pochi euro si Vimeo. Dal documentario è nata l’associazione N1M (not one more, non uno di più).
- Il documentario The Green deal di Glbal Witeness del 2007, disponibile su Youtube. Qui i alla parte 1, parte 2, parte 3.
- 3 days in Prey Lang (3 giorni a Prey Lang), un video documentario sugli attivisti del PLCN
- I documentari dell’associazione Mother Nature sulle aree a rischio in Cambogia, soprattutto sulla costa
Ecco alcuni altri articoli specifici su cui ho basato quello che ho scritto:
- La morte di Chut Wutty resta senza responsabili (Phnom Penh Post, 2015)
- Death of a comrade (Morte di un compagno), l’articolo di Global Witness sulla morte d Chut Wutty (2015)
- Articolo sulla morte di Chut Wutty del Phnom Penh post
- Ritiro di alcune concessioni agricole (ELC) nel 2015 grazie al lavoro degli attivisti
- Vanishing roots, il reportage multimediale di Thomas Cristoforetti, Clothilde Le Coz, Antoine Raab (2015)
- Il Goldman Prize racconta la storia di Leng (2016)
- Articolo del Phnom Penh post sull’attivista che è stata aggredita con un’ascia durante una pattuaglia nel 2016
- Frontline defenders su Ouch Leng (2016)
- L’articolo di The guardian dedicato a Ouch Leng e al suo lavoro (2016)
- Asiasociety.org su Ouch Leng (2017)
- Deforestazione a Rattanakiri (2018, Radio Free Asia)
- Sulla dittatura di Hun sen (Global Witness, 2018)
- Proteste per l’accordo sull’importazione di legname tra Unione Europea e Vietnam (Khmer Times, 2018)
- Il reportage multimediale di Aljazeera sulla deforestazione in Cambogia (2019)
- Il Prey Lang investigation report dell’associazione Cambodian Youth Network (2019)
- L’articolo del Cambodia daily sull’arresto di Ouch Leng (2020)
- Il governo impedisce l’annuale benedizione degli alberi di Prey Lang (Radio Free Asia, 2020)
- Il governo impedisce l’annuale benedizione degi alberi di Prey Lang (Khmer times, 2020)
- L’articolo di VOA Cambodia sulla cattura e liberazione di Ouch Leng a Marzo 2020